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Sanità nella Regione degli “ultimi”

14 maggio 2010

La differenze di cure tra un ospedale calabrese e uno di Roma. La disperazione e i “perchè?” per una “perdita”, in una lettera inviata da una mamma al dott. Cosmo De Matteis, medico in prima linea, impegnato nella ricerca delle connessioni tra l’aumento dei tumori e le condizioni ambientali nei paesi del Tirreno cosentino.

dott. Cosmo De Matteis

In questi giorni rivivo momento per momento tutto il calvario che ha passato mio figlio, ragazzo di 30 anni nel pieno della vita. Aveva salute, vitalità, forza, un futuro davanti di sposo e di padre, e all’improvviso si è ritrovato con una catastrofe sulle spalle, una catastrofe di nome LINFOMA NON HODGKIN.
E’ cambiata la vita di tutti in famiglia, in primis la sua. Da che viveva tranquillo e felice appena sposato in attesa del primo figlio, si è ritrovato in un letto di ospedale il 20 gennaio e vi è rimasto tra alti e bassi fino all’undici ottobre..giorno in cui è morto.

In questi nove mesi di travaglio, l’ansia, l’incertezza, la paura ci ha accompagnati sempre.
Ha incominciato la sua via crucis all’ospedale di Paola, dove posso dire che ha ricevuto il massimo delle cure, delle attenzioni; tutti indistintamente sono sempre stati a disposizione: medici, infermieri, ausiliari, suore, Tutti, ad iniziare dal personale del P.s al reparto di oncologia, di chirurgia, centro trasfusionale, personale del 118, direzione sanitaria; tutti hanno dato il massimo della disponibilità e professionalità.

Nonostante tutto ha incontrato tante difficoltà; dalle semplici provette specifiche per l’emocultura in ospedale che non c’erano. Chiamato Cetraro, quelle che c’erano erano scadute, così, mio marito tramite amicizie riesce ad averle dall’ospedale di Cosenza , ma tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare, infatti si approssimava la Pasqua e per un giorno libero per avere un esame di emocultura sono trascorsi 10 giorni. Intanto mio figlio stava con la febbre alta ed antibiotici di tutti i tipi.
Quando invece era a Roma, quando gli si alzava la febbre era pronta un’emocultura anche più volte al giorno. Questa una delle tantissime cose che ho visto. Per esempio, per avere un aspirato midollare in Calabria ci siamo dovuti rivolgere presso il Centro universitario di Germaneto(CZ) , mentre a Roma, al Gemelli, semplicemente entrava un medico nella sua stanza e lo faceva, il paziente non doveva neanche alzarsi dal letto.
Per fare la crioconservazione si è dovuto recare a Roma al Policlinico Umberto I; prendere appuntamenti, affrontare viaggi e spese.

risultati delle ricerche condotte da Cosmo De Matteis e dai suoi colleghi

risultati delle ricerche condotte da Cosmo De Matteis e dai suoi colleghi

Ho notato la differenza solo quando ho visto come lavoravano al reparto di ematologia del Policlinico Gemelli; solo ora ho capito che ABISSO CI PUO’ ESSERE TRA UN OSPEDALE E L’ALTRO. E’ vero, non ci possono essere paragoni, ma mi chiedo :” perché per avere le cure necessarie, mio figlio si è dovuto allontanare dalla sua città, dalla sua famiglia senza avere neanche il conforto della moglie che in attesa del primo figlio non ha potuto affrontare il viaggio fino a Roma!” . Se mio figlio era più vicino e più raggiungibile sicuramente avrebbe visto la moglie più spesso. Mi ricordo che aveva il desiderio di vedere la pancia della sposa e mi diceva sempre: “chissà se è cresciuta la pancia!”. Si trovava ricoverato anche quando è nata la figlia, lui quel 4 luglio aveva la chemio e per telefono è stato avvisato di essere diventato papà.
Ha visto la sua bambina solo 15 giorni dopo, quando è potuta venire a Roma.

Se fosse stato ricoverato più vicino l’avrebbe vista prima. Non si pensava morisse e fino all’ultimo si è sperato che ce la facesse e avrebbe potuto vivere, seppur tra le sofferenze, di queste gioie importanti nella vita di un ragazzo.
Gli è stata tolta anche la gioia di essere vicino alla moglie nel momento in cui nasceva la loro bimba…PERCHE’? Perché si doveva curare a Roma e non poteva farlo a Paola e Cosenza?
E la famiglia? Io l’ho seguito passo passo , non l’ho lasciato per 5 mesi e 8 giorni. Sono stata a Roma con lui. Abitare in un Istituto di suore, oltre a prosciugare tutti i risparmi ( chi ha la fortuna di averne) significa vivere senza sapere come lavare un pigiama, la biancheria intima. Dovevo lavarla nel lavello del bagno di nascosto, stenderla nelle grucce e farla asciugare nella doccia, oppure metterla fuori dalla finestra e ritirarla la mattina presto perché era proibito lavare i panni in camera!
Desiderare una camomilla la sera. Dover nascondere un panino per la cena nell’armadio perché non si poteva tenere cibo nella camera. Non conoscere nessuno per farti indicare dove comprare un paio di calze o un pigiama di ricambio; mangiare alla tavola calda un piatto di pasta a 6€ e rinunciare al secondo perché troppo caro. Non aver nessun contatto, se non telefonico, con una persona della famiglia. Non poter piangere sulla spalla di un familiare; passare le giornate nella sala di attesa dell’ospedale fino all’orario di entrata nel reparto. Passare i pomeriggi accanto al letto di mio figlio parlando delle cose che si potevano fare se gli avessero dato le dimissioni dopo la terapia. Affrontare il viaggio fino a Paola, ritornare a casa, rischiare una complicazione o infezione per vedere la famiglia, oppure rimanere a Roma in una stanza in affitto e pensare come sarebbe stato bello ritornare a casa! Tutti questi sacrifici se li sarebbe risparmiare mio figlio se solo si fosse potuto curare in Calabria. Avrebbe potuto passare l’ultimo periodo della sua vita circondato dall’affetto della famiglia, di tutti.

Ospedale di Paola CS

Queste cose si capiscono fino in fondo solo quando si vivono sulla propria pelle; nessuna parola al mondo può spiegarel’angoscia, la paura e l’impotenza di fronte alle sofferenze di un figlio..e oltre a questo la solitudine. Guardarsi intorno e non vedere un volto familiare..vivere momenti di indecisione: che faccio adesso? Dove vado? Non poter parlare con nessuno perché parlare al telefono è molto molto diverso dall’aver accanto qualcuno. Tutto questo si affronta con forza e coraggio perché si spera fino all’ultimo nella guarigione di un figlio, ma quando accade il peggio, com’è accaduto a me oltre alla disperazione per la perdita di un figlio rimane la rabbia perché “ non ho potuto dare il meglio, il massimo fin dal primo momento”! mi chiedo: e dall’inizio fosse stato ricoverato a Roma , si sarebbe salvato? E’ un dubbio che mi porterò sempre nel cuore.

L. S.

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