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“L’ultima spiaggia, saggio di geografia disumana” in prima nazionale ad Amantea

15 giugno 2010

il regista Massimo De Pascale

Amantea - Sarà presentato in prima assoluta ad Amantea (CS) il documentario  “L’ultima spiaggia, un saggio di geografia disumana”, sul traffico dei rifiuti che riguarda la Calabria (scritto e diretto da Massimo De Pascale. Riprese e montaggio di Nicola Carvello. Produzione DoKufilm). L’evento rientra nel programma del Gaia International Festival che prende il via sabato 19 giugno e si svilupperà per una settimana, fino al 27, nei paesi situati lungo la costa tra Amantea e Maratea. Il documentario, della durata di circa 50 minuti, sarà proiettato domenica 20 giugno alle ore 20,30 ad Amantea, in Piazza Calavecchia.  ”Il senso del lavoro è racchiuso in buona parte nel sottotitolo “Un saggio di geografia disumana” – ha dichiarato l’autore -. Si tratta di un documentario in cui la denuncia di una situazione estrema avviene attraverso il linguaggio delle immagini, cercando di coniugare poesia e antropologia e dilatando il discorso dalla situazione particolare a una riflessione più generale sull’incrinarsi del rapporto tra l’uomo e la natura.” Lo stesso rapporto tra uomo e natura raccontato dallo stesso De Pascale nel premiato “Vita, morte e miracoli nel paese più povero d’Italia” documentario che racconta la storia di Nardo Di Pace un piccolo centro dell’entroterra calabrese, definito il paese più povero d’Italia, devastato dalle frane e forse ancor di più, dalla scellerata ricostruzione che ne è seguita.

Dal sito: http://www.morganalab.eu/cinema_scheda.asp?id=15

“Vita, morte e miracoli nel paese più povero d’Italia”

Sinossi
Una statistica ufficiale, pubblicata nel 1989 da tutti i maggiori quotidiani nazionali, proclamava Nardodipace il comune più povero d’Italia.
Situato al centro della Calabria, la più povera delle regioni italiane, e vittima negli anni di una serie di alluvioni che ne hanno cambiato profondamente il territorio e l’economia, il paese è subito diventato un caso nazionale, suscitando periodicamente l’attenzione della stampa e della televisione.
Ma nonostante le sue caratteristiche estreme il caso di Nardodipace non è isolato, rappresenta in maniera emblematica la condizione in cui versa un’intera parte d’Italia: la distruzione sistematica della civiltà contadina, la morsa della criminalità organizzata che strangola qualsiasi attività economica, l’assenza dello Stato, la disperazione dei giovani che sono ancora costretti, come cent’anni fa, a emigrare per costruirsi una prospettiva di vita.
Perché oggi la miseria, in una delle nazioni più ricche dell’Occidente, non è più la fame o la mancanza dei servizi igienici, ma l’impossibilità di pensare una vita più dignitosa e più giusta.
Il film è in primo luogo il racconto delle speranze continuamente disattese di Nardodipace e di tutto il Sud Italia, del coraggio e delle illusioni generose dei suoi abitanti e dei tanti tradimenti della politica e della Storia.
Adesso, nelle contrade del paese, fra i vecchi e i giovani, domina palpabile il senso della fine di un mondo e l’attesa indistinta di qualcosa che possa miracolosamente rovesciare la situazione, e ancora si racconta l’antica leggenda di una favolosa chioccia dai pulcini d’oro che svanisce lasciando ancora più disperati quelli che hanno avuto il coraggio di inoltrarsi nel bosco per cercarla.
Eppure, in un tempo in cui le ragioni dell’economia globalizzata hanno sconvolto definitivamente gli equilibri del pianeta, le immagini di questo paese condannato a una lenta estinzione e le ultime testimonianze di una civiltà che per secoli ha saputo convivere in precario equilibrio con una natura aspra e bellissima, ci arrivano con il fascino irresistibile di un mondo perduto.

Relazione artistica
Un’antica canzone popolare calabrese racconta una straziante storia di fatica e di soprusi:

Ccu’ trenta carrini m’accattai ‘na vigna
Mi l’accattai supra ‘na muntagna
Cui si scippau lu graspu e cui la vigna
Povira vigna mia, lavura e magna
Povira vita mia, lavura e magna

Tantai tantu ppe’ fari un castellu
Cridennu ch’era jeu lu castillanu
Ma doppu fattu, preziusu e bellu
Li chiavi mi spariru, bella, di li manu.

Questi versi rappresentano, con l’evidenza della poesia autentica, il senso di frustrazione e di spossessamento vissuto da tempo immemorabile da tutte le giovani generazioni meridionali.
L’alternativa, oggi come cent’anni fa, sembrerebbe essere quella fra il rimanere in una situazione stagnante, dominata dalla protervia dei prepotenti e dall’acquiescenza dei deboli, o partire per assicurarsi un futuro diverso lontano dalla propria terra.
Ma è davvero così, o esistono anche per i giovani del Mezzogiorno modi diversi di determinare il proprio futuro?
Da un sogno infranto di dignità e indipendenza, intendiamo partire. Non per abbandonarci al fatalismo di chi crede che la situazione sia immutabile per una specie di maledizione divina o per qualche tara genetica dei meridionali, ma per rappresentare onestamente, nelle sue luci e nelle sue ombre, una situazione di disagio e per cercare di comprendere le radici profonde di questo disagio.
Per questo allargheremo la visuale, cercando di raccontare nei suoi vari aspetti, umani e sociali, un territorio e la sua gente. Ascolteremo i racconti di vita di vecchi e giovani e mostreremo l’aspra bellezza di un paesaggio che nei secoli ha modellato l’anima della sua gente.
Soprattutto cercheremo di riflettere e far riflettere su alcuni nodi essenziali della storia e della società calabresi, nella convinzione che sia sempre la storia a renderci quelli che siamo, ma anche che la consapevolezza di questa storia sia una delle poche armi che abbiamo a disposizione per tentare di riscattarci.

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